Impegno e disperazione di Günther Anders

novembre 18, 2012 § Lascia un commento

 cesare pianciola

Ricordiamo – a venti anni dalla scomparsa – quello che è stato definito, riduttivamente, “il filosofo della bomba atomica”: il suo stile filosofico asistematico (ma che ha come centro la denuncia del dominio incontrollato della tecnica), l’affascinante mescolanza di filosofia e letteratura, la sua biografia di ebreo fuggiasco dalla Germania hitleriana che si interrogò sul significato di Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki .Vent’anni fa moriva Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern, Breslavia 1902 – Vienna 1992). La sua – come ha mostrato in un bel libro Pier Paolo Portinaro (Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003) – è un’opera ampia, eterogenea, frammentaria. Sono i fenomeni specifici, singoli e occasionali a far riflettere il filosofo, dice Anders. Ha coltivato diversi generi di scrittura (nel 2008 l’editore Lupetti ha pubblicato la traduzione del fantapolitico La catacomba molussica) ma, soprattutto, praticava, secondo le sue parole, una «filosofia d’occasione», programmaticamente antisistematica.

La sua opera filosofica principale è raccolta nei due volumi de L’uomo è antiquato (l’uomo è divenuto antiquato rispetto a mezzi tecnici che non domina e dalla cui logica mortifera è dominato), usciti a 24 anni di distanza: nel 1956 e nel 1980. Entrambi sono stati tradotti in italiano: dal Saggiatore, nel 1963, erano uscite le Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale; da Bollati Boringhieri, nel 1992, è stato riedito questo volume (con la prefazione di Costanzo Preve) insieme alla traduzione del secondo, Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale. La prima rivoluzione industriale riguarda i mezzi di produzione; la seconda l’induzione dei bisogni, il consumismo, la pubblicità; la terza la bomba atomica e la manipolazione genetica.

Per Anders, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, oltre che essere un orrendo passato, possono delineare i tratti del futuro. La chiave interpretativa della modernità è in lui il dominio della tecnica, visto come dominio totalitario di un sistema completamente reificato, che alla fine – con la bomba – procede verso la distruzione dell’umanità.

Anders deve molto al Kulturpessimismus che troviamo in molti importanti autori tra le due guerre e negli anni successivi, autori di diverso orientamento politico e spesso anche in polemica tra di loro: da La crise de l’esprit di Paul Valéry (1919) alla Dialettica dell’illuminismo (1947) di Horkheimer e Adorno (da vedere su questi temi Michela Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, presentazione di Gianni Vattimo, Laterza, Roma-Bari 2000). Anders è vicino alla critica della ragione strumentale dei francofortesie alla loro analisi impietosa dei mass media. Quanto al metodo, Adorno nei Minima moralia parla di esagerazione indispensabile e di filosofia oggi necessariamente frammentaria, che sono altrettanti aspetti dello stile di Anders. La critica della tecnica è anche al centro dei testi di Heidegger degli anni Trenta e del secondo dopoguerra. Anders fu allievo di Heidegger e ne subì il fascino. Poi criticò aspramente lo Heidegger “esistenzialista” (cfr. Nichilismo e esistenza, in MicroMega, 2/1988 e Heidegger esteta dell’inazione, in MicroMega, 2/1996). Ma permangono in lui molti motivi heideggeriani, particolarmente evidenti nel secondo volume dell’Uomo è antiquato: la natura umana ed extraumana come fondo, Bestand, da sfruttare; depersonalizzazione e il “si” anonimo nella società di massa; il “chi” che domina è oggi la tecnica, ecc.

In lui la denuncia del dominio incontrollato della tecnica si intreccia con quella della massificazione e dell’atomizzazione degli individui, e con l’analisi della mercificazione universale, che aveva appreso dal marxismo nella Germania degli anni Venti e Trenta, da cui dovette fuggire all’avvento del nazismo per emigrare poi negli USA, e tornare in Europa nel 1950, stabilendosi a Vienna.

Spesso Anders svolge un discorso che annulla le distinzioni e riporta ad unità fenomenologie e realtà molto diverse.In particolare, per Anders il totalitarismo politico è conseguenza di quello tecnico, della megamacchina tecnototaliaria; c’è tanto nel nazismo e nello stalinismo quanto nelle società liberaldemocratiche (cade la «distinzione tra coercizione implicita e esplicita»; nel mondo occidentale regna un terrorismo in veste liberale).

Certo la cifra di Anders – dice Portinaro – non è la Gelassenheitheideggeriana(l’abbandono all’essere) ma l’indignazione: Anders vuole fare dell’angoscia una passione sociale e pubblica, la sua è un’etica della responsabilità dilatata fino all’insostenibile. Secondo Anders, si deve resistere al nefasto dominio della tecnica. Ma questa resistenza attiva non si giustifica agevolmente sulla base della sua filosofia. Qualsiasi cosa facciamo siamo infatti incorporati nel “sistema”. La megamacchina è onnipervasiva, è un deus absconditus che non può essere né combattuto efficacemente né arrestato nella sua corsa verso disastri sempre maggiori, fino alla catastrofe che si profila. Anders cerca di tenere insieme con difficoltà impegno e disperazione.

A mio avviso, le sue riflessioni sul cambiamento qualitativo nella storia umana rappresentato dalla minaccia atomica, sulla inadeguatezza dell’immaginare rispetto al fare (tra il poter fare tecnicamente e immaginarne le conseguenze), sull’anestetizzazione etica diffusa, sono aspetti importanti del suo pensiero da districare dalla sua filosofia del tecnototalitarismo.

Forse il libro migliore di Anders è Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Uscito, nella traduzione di Renato Solmi e con la prefazione di Norberto Bobbio, nel 1961 da Einaudi, fu poi ripubblicato da Linea d’Ombra nel 1995. È la storia di un viaggio in Giappone nel 1958, racconto di grande valore anche letterario, intessuto di riflessioni acuminate contro la minimizzazione del pericolo atomico, dietro alla quale – diceva Bobbio – «c’è semplicemente il desiderio di non pensare alle cose che rovinano il buon umore e la salute». Il libro ha un’appendice del 1960 che riassume sinteticamente in modo molto chiaro le tesi dell’autore.

Toccanti sono anche le note autobiografiche di Il mio ebraismo in Gli aratori del vulcano. Razzismo e antisemitismo (1933-1993), a cura di Alberto Cavaglion, Linea d’Ombra, Milano 1994, pp. 93 – 115. Purtroppo Essere o non essere non è attualmente in commercio. Il mio ebraismo si può invece leggere ora nella raccolta Il volto dell’altro. Intellettuali ebrei e cultura europea del Novecento, a cura di Mario Pezzella, Quodlibet, Macerata 2011. Sul versante autobiografico, è da segnalare anche Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia 1966 (Bollati Boringhieri 2008) edè uscito da poco La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt (Donzelli, Roma 2012). Nel 1929 Anders sposò la Arendt – che cercava di dimenticare la sua passione per Heidegger – ma nel 1937 giunsero al divorzio. Anders  le rimase affettivamente molto legato («l’amore è quell’atto attraverso il quale l’a posteriori, ovvero l’altro incontrato casualmente, viene trasformato in un a priori della propria vita») e nei primi anni Ottanta diede forma a questi ricordi nei quali è difficile stabilire «quanto ci sia di Hannah, quanto di me, quanto di allora, quanto di oggi».

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